Vittorio Alfieri: Commento al Filippo, Atto V, scena III

Prima del commento alla scena III del V Atto, riporto un approfondimento sulla trama, di modo che sia chiara a tutti, anche a chi non ha letto la tragedia in integrale

Tratto da


La prima tragedia dell'Alfieri è la "Cleopatra" (ideata, stesa e versificata per ben tre volte fra il gennaio 1774 e la primavera del 1775, rappresentata e applaudita nel giugno del '75).
La vicenda, imperniata sulla tirannia d'amore che la regina egiziana esercita su Marco Antonio, il condottiero romano succeduto a Cesare, è assai povera d'azione, fragile e fredda nel linguaggio e ancora ingombra di residui melodrammatici. Qualche vago accento, che preluda al futuro vigore del verso alfieriano, è solo nelle ultime parole di Antonio: "...il vincitor vedrammi più grande almen della mia sorte avversa, colà vinto morir, ma non fuggire" e nelle ultime parole di Cleopatra: "e in fin ti sia concessa la dovuta ai tiranni orrida morte".

Poche cose, è vero, ma intanto il programma è chiaro: la tirannide, inumana solitudine, tradimento dell'amicizia, dell'amore, della fedeltà, è un orizzonte che si colora di passionalità sfrenata, di egoismo e di odio, è un irreversibile destino di sangue.

La seconda tragedia, il "Filippo", rende questo messaggio ancora più esplicito e drammatico. Ideata nel '75, stesa due volte, porta sulla scena "lo snaturato odio paterno" di Filippo, re di Spagna, per il figlio Carlo. Siamo nella Spagna cinquecentesca. Cinque i personaggi: Filippo, crudele e ipocrita; Isabella, sua consorte, ingenua, dolce e innamorata; Don Carlo, figlio di primo letto, coraggioso, leale e fatalmente rassegnato; il ministro Gomez, perfido e subdolo; Perez, amico di Carlo, devoto e generoso.
Filippo sospetta di Isabella e Carlo. Studia un raggiro e in un colloquio con la regina accusa il figlio di complotto e di alleanza con i nemici del regno. Isabella prende le difese del figliastro, fornendo a Filippo la prova che andava cercando. Ma non basta: il re finge di accondiscendere alle implorazioni della donna e in sua presenza, convocato il figlio, dichiara di volerlo perdonare. Gomez, che in questa vicenda ricorda lo Iago nell'"Otello", confida al sovrano la sua certezza nella colpa del figlio e si adopera insistentemente presso Filippo perché venga punito. Don Carlo, che conosce il carattere del padre e la perfidia del ministro, parla con Isabella e la invita ad essere prudente e ad opporsi dissimulando alla dissimulazione altrui. Troppo tardi. Filippo raduna i ministri e pronuncia l'accusa di tentato parricidio da parte di Carlo. Sole Perez ha il coraggio di alzare la voce per difendere il principe dichiarando infondata l'accusa. Il gesto è veramente eroico e puro perché Perez conosce bene il prezzo di quelle parole: Perez viene ucciso e Carlo gettato in prigione. Arriva il momento decisivo: Gomez, vestendo l'ipocrita maschera della comprensione e della pietà, convince Isabella a visitare il principe.
Filippo, immediatamente informato dell'incontro segreto, sorprende i due amanti: Isabella confessa al re la purezza e l'innocenza del suo amore; Carlo si uccide colpendosi al petto con un pugnale. Isabella con lo stesso gesto e con la stessa arma compie finalmente la tragedia.


Ora riporto il commento alla scena III, Atto V, tratto da


Scena Terza: Filippo, Isabella, Carlo

Filippo: Ora di morte è giunta: perfido, è giunta: io te l'arreco.

Isabella: Oh vista! Oh tradimento!

Carlo: Ed io sono presto a morte! Dammela tua.

Filippo: Morrai, fellon: ma pria, miei terribili accenti udrete pria voi, scellerata coppia. Infami: io tutto, sì, tutto io so: quella, che voi d'amore,
me di furor consuma, orrida fiamma, m'è da gran tempo nota. Oh quai di rabbia repressi moti! oh qual silenzio lungo!... Ma entrambi alfin nelle mie mani cadeste. A che dolermi? usar degg'io querele? Vendetta vuolsi; e avrolla io tosto; e piena, e inaudita l'avrò.

Commento: la frase evidenziata in rosso, secondo Ceriello, che l'ha commentata, pare dare un po' di umanità al tiranno. Durante "questo silenzio", anche egli ha orribilmente sofferto. è un lampo forse di umanità, sicché l'anima tragica giganteggia in un turbine di fosche passioni.

Filippo: Iniqua donna, nol creder già, che amata io t'abbia mai, né, che gelosa rabbia al cor mi desse martìro mai. Filippo, in basso loco, qual è il tuo cor, l'alto amor suo non pone; né il può tradir donna che il merti. Offeso in me il tuo re, non il tuo amante, hai dunque. Di mia consorte il nome, il sacro amore, contaminato hai tu. Mai non mi calse del tuo amor; ma albergare in te sì immenso dovea il tremor del signor tuo, che tolto d'ogni altro amor ti fosse anco il pensiero.
Commento: Filippo si autodefinisce e colloca la sua morale in una sfera che trascende la miseria delle passioni umane. Il suo amore è "alto" mentre il cuore di Isabella è "in basso loco". è la delimitazione di due mondi, di due modi di concepire certi rapporti umani. La colpa di Isabella non è tanto quella di tradire Filippo-uomo, quanto quella di offendere Filippo-re. Filippo-re perciò non si vendicherà come marito amoroso tradito ("il tuo amante") ma come sovrano offeso. Se si vendicasse come marito tradito, cadrebbe in "quel basso loco" in cui colloca Isabella, la quale più che aver commesso adulterio e incesto, ha contaminato il sacro nome della consorte del re. Il cuore di Isabella, secondo Filippo, avrebbe dovuto albergare una riverenza ("tremor") per il suo signore tale ("sì immenso") da escludere persino il pensiero di ogni altro amore. Quindi non amore, ma totale annientamento della sua persona nella venerazione del sovrano. Marzot, commentando Filippo, fa notare che "Il tremendo potere del tiranno, che vigila e indaga non visto né avvertito, e misura e domina segretamente le azioni degli uomini perché non abbiano a superare il limite concesso"

Nota di Lunaria: Peraltro, c'è da far notare che più avanti Isabella risponde così: "In me il silenzio nasce di timor, no; stupore alto m'ingombra del non credibil tuo doppio, feroce, rabido cor. Ripiglio alfin, ripiglio gli attoniti miei spirti... Il grave fallo d'esserti moglie è alfin dover ch'io ammendi. Io finor non ti offesi: al cielo in faccia, in faccia al prence, io non son rea: nel mio petto bensì..." e ancora: "Indarno [Carlo] salvarmi tenti: ogni tuo dire è punta, che in lui [Filippo] più annaspra la superba piaga [...] Ma il cor, così si cangia? Addentro in core forte ei mi stava: ma non pria tua sposa fui, che repressa in me tal fiamma tacque": ribadendo la sua innocenza, Isabella fa persino presente che appena fu sposa di Filippo, soffocò la voce ardente di quell'amore proibito con Carlo. La tragedia, comunque, nell'Atto Primo, si apriva con Isabella, che, lacerata, affermava "Consorte infida io di Filippo, di Filippo il figlio oso amar, io? [...] Misera me! sollievo a me non resta altro che il pianto; ed il pianto è delitto." è la stessa Regina, troppo amante della virtù, dell'onestà e della fedeltà, seppur formale, che preferisce rinnegare se stessa e vivere di rinuncia, invece che vivere l'amore adulterino, che la renderebbe appagata.

Al che, Filippo, invece di perdonare, stimare Isabella per la sua volontaria rinuncia ai piaceri dell'amore corrisposto e l'immacolata onestà che la contraddistingue, e quindi ammettere di aver avuto torto, replica stizzito: "Ben io il farò: sì, nel tuo sangue infido io spegnerò la impura fiamma...": piuttosto che rinunciare al proprio orgoglio, Filippo non esita ad uccidere due innocenti. Più che una tragedia sulla gelosia, "Filippo" resta la testimonianza di un Io tiranno, superbo e possessivo, malato di megalomania, che trova più piacere nell'uccidere e nel vedere il sangue, per "lavare inesistenti onte"(e in tal senso, Filippo è anche paranoico) piuttosto che accettare con umiltà di aver sbagliato e chiedere perdono, evitando la tragedia.
Non a caso, Isabella, di fronte al truce tiranno, commenta: "Ognora sangue versare, e ognor versar più sangue, è il sol tuo pregio" e Carlo, da parte sua "Oh! possa mio sangue sol spegner la sete ardente di questa tigre!". La cosa interessante è che lo stesso Filippo non è neanche innamorato di Isabella: "Mai non mi calse del tuo amor; ma albergare in te sì immenso dovea il tremor del signor tuo". Non la ama, non vuole amore, non si importa minimamente dei sentimenti altrui e del rispetto reciproco: vuole solo essere adorato e temuto; ma Filippo non è solo uno scellerato tiranno, si dimostra anche perfido calcolatore: dopo aver offerto il pugnale a Carlo, perché si trafigga davanti a Isabella ("Mirami... Io moro... segui il mio esempio"), non permette ad Isabella di darsi la morte tramite veleno ("Ah! sì; ti seguo. O morte, tu mi sei gioia; in te..."). Infatti, Filippo la condanna ad una vita di solitudine: "Vivrai tu dunque; mal tuo grado, vivrai [...] Da lui disgiunta, sì, tu vivrai; giorni vivrai di pianto: mi fia sollievo il tuo lungo dolore. Quando poi, scevra dell'amor tuo infame, viver vorrai, darotti allora io morte". Qui Filippo dimostra tutto il suo delirio di onnipotenza: vuole essere padrone di dare la vita e la morte a seconda del suo capriccio, vuole godere delle lacrime che Isabella verserà ogni giorno: alla violenza fisica, Filippo aggiunge anche quella psicologica; il suo sadismo è totale.

è proprio Isabella che, di fronte all'alternativa di passare la vita in lacrime accanto al tiranno, in un ultimo gesto coraggioso, velocemente afferra il pugnale di Filippo e si colpisce, ribadendo ancora la sua innocenza e fustigando, moralmente, il tiranno, facendo ricadere la colpa delle morti su di lui ("Morir vogli'io... supplisca al tolto nappo il tuo pugnal [...] Morir vedi... la sposa... e il figlio... ambo innocenti... ed ambo per mano tua"). Così, muoiono entrambi; e di fronte ai corpi insanguinati "dai quali scorre il sangue" che Filippo aveva tanto bramato poco prima, il tiranno ha un brevissimo moto di rimpianto; infatti, definisce "orrida" e non "soddisfacente" la sua vendetta "che è stata piena" e si è compiuta ("Ecco, piena vendetta orrida ottengo") chiedendosi "Ma, felice son io?". Il tragico interrogativo dimostra che Filippo, sfogato l'odio folle e immotivato, si sente comunque inappagato e dolente: il male non era al di fuori, ma proprio dentro di lui, e morti quelli che lui reputava colpevoli del suo furore, si ritrova ancora inappagato e frustrato, solo con se stesso.

Stupende illustrazioni alle Tragedie dell'Alfieri











Vedi anche:

1) La Tomba: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/01/la-tomba-di-vittorio-alfieri.html
2) Commento alla Vita, Tirannide e Tragedie: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/07/vittorio-alfieri-vita-e-commento-alla.html
3) Commento al "Filippo": http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/07/vittorio-alfieri-commento-al-filippo.html
4) Commento alle Rime: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/07/vittorio-alfieri-rime-commento-la-dove.html
5) Commento al "Saul": http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/08/il-saul-di-vittorio-alfieri-lemergere.html
6) Commento a "Maria Stuarda": http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/11/le-pagine-piu-belle-della-maria-stuarda.html
 7) Commento a "La Congiura de' Pazzi": https://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2018/01/la-congiura-de-pazzi-di-alfieri-i-versi.html
 8) Don Garzia: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2018/01/don-garzia-di-vittorio-alfieri-le.html

Mirra: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2018/02/mirra-di-vittorio-alfieri-i-versi-piu.html