Vittorio Alfieri: Vita e commento alla Tirannide e alle Tragedie

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"Signore, Voi mi avete privato della vita perché m'avete creduto cattivo, comunque, nonostante il colore dei miei capelli, Vi assicuro, che io non lo fui. Mi piaceva molto criticare le azioni degli uomini, e ci mettevo spesso del fiele, ma non erano gli uomini quelli che io detestava, bensì i loro vizi e le loro ridicolezze (...) mentre deploravo l'acciecamento di coloro che perdono il loro tempo, sono sempre andato alla deriva in balia delle mie passioni, e ho molto male impiegato il mio." (Vittorio Alfieri)


"Il nascere della classe dei nobili mi giovò... moltissimo", scriveva Alfieri "per poter poi senza la taccia d'invidioso e di vile, dispregiare la nobiltà, per sé sola, svelarne le ridicolezze, gli abusi e i vizi"

Le colline d'Asti si stendono a secco d'estate, d'inverno, scolpite dal gelo, scompaiono sotto impenetrabili tessiture di nebbia. Niente sfumature, incertezze, ambiguità. Colori decisi e forti. Così, delle colline d'Asti, il Genio. Da genitori nobili, ricchi, ma di grassa ignoranza, secondo la più pura tradizione dell'aristocrazia piemontese prerisorgimentale, nel pomeriggio del 16 gennaio 1749 nasce in Asti Vittorio Alfieri.

Fisicamente gracile, spremuto e bianco per il mal dei pondi (dissenteria con flusso sanguigno) Vittorio vive un'adolescenza malinconica e chiusa.
I grandi saloni del palazzo Alfieri sono un labirinto ordinato ma senza anima. Anche la sorella Giulia scompare presto rinchiusa in monastero, secondo il costume dell'epoca.

Vittorio scriverà più tardi: "Di questo avvenimento domestico mi ricordo benissimo (...) Mi sono presentissimi i dolori e le lagrime ch'io versai in quella separazione..."

Piange e soffre, da solo e in silenzio. Nel silenzio si arroccano anche i primi capricci e le ribellioni precoci.
Costretto per castigo ad andare alla messa con la reticella da notte in capo, la prima volta cerca di resistere con la forza, si fa trascinare di peso; la seconda volta non oppone alcuna resistenza.
 
Malinconia, scontrosità, orgoglio, invidia, sono il bagaglio che a 9 anni il conte Vittorio porta con sé nei lugubri appartamenti dell'Accademia Militare di Torino. Obbligato a studiare grammatica, retorica, filosofia, matematica, fisica, diritto civile e canonico, tutto condito in un latino inutile e pedantesco, Vittorio si procura di nascosto i quattro tomi dell'Orlando Furioso, che gli vengono presto sequestrati: è assolutamente vietato abbandonare il latino per le sciocche rime italiane di un volgare autore d'avventure.

"Io viveva frattanto in tutto e per tutto ignoto a me stesso; non mi credendo vera capacità per nessuna cosa al mondo; non avendo nessunissimo impulso deciso altro che alla continua malinconia; non ritrovando mai pace né requie, e non sapendo pur mai quello che io mi desiderassi"


Ottenuto il permesso regale di viaggiare al di fuori del Piemonte, Vittorio visita Milano, Bologna, Firenze, Lucca, Pisa, Livorno, Siena, Roma, Napoli, Venezia, Parigi (che lo delude) e infine Londra. Nessun monumento, opera d'arte, paesaggio, niente smorza la sua istintiva irrequietezza. Una giovane donna, Cristina Imholf, incontrata per caso, amata per gioco, e persa per un trasferimento del marito, riesce a fermare l'Alfieri. A 19 anni tenta il suicidio e viene salvato dal domestico. Il 29 settembre 1768 Vittorio e il servitore rientrano in Piemonte. Si appassiona a Montesquieu e Plutarco, e gli viene proposto un matrimonio d'interesse, che poi viene annullato perché i modi strani di Vittorio non convincono i parenti della promessa sposa. Così Vittorio parte per Vienna, poi per la Danimarca e la Svezia. Il suo furore e l'odio per la Prussia si sfogano in lunghe corse sulla slitta "per quelle cupe selvone, e su quei lagoni incrostati". Alla fine del '70 è di nuovo a Londra. Qui conosce Penelope Pitt, moglie di Lord Ligonier e per la seconda volta si innamora. A Torino s'insedia in un grande e lussuoso appartamento affacciato sulla piazza San Carlo, e riesumati i vecchi amici fonda con loro una strana accademia letteraria. Si innamora della marchesa Gabriella Falletti Turinetti e la malattia d'amore lo riduce per quasi tre anni al grado di servilismo più basso; lunghe ore di ozio e alla fine la noia lo riportano lentamente alla realtà. Scopre, a 26 anni, la vocazione per il teatro, come luogo di ribellione e di lotta, pulpito civile per il grido della libertà contro qualsiasi forma di oppressione capace di minacciare lo sviluppo dell'individuo.
Si piega sui libri, studia: oltre alla tragedia "Cleopatra", scrive "Filippo", "Polinice", "Antigone", "Agamennone", "Oreste", "Don Garzia". S'innamora di Machiavelli e compone il trattato politico "Della Tirannide". La donna che gli ruba il cuore in questo periodo è Luisa, contessa d'Albany.

Alla fine del'80, Alfieri compone le prime quattro odi all'"America libera" e le tragedie "Merope" e "Saul". Seguono altri numerosi viaggi.
è nel '90 che comincia a rievocare il proprio passato scrivendo la prima parte della "Vita". Muore dopo averne completato la seconda parte, nel 1803, in seguito a un forte attacco febbrile.

Se l'Alfieri uomo muore, sopravvive il suo valore: Andrea Chénier, Cesare Balbo, Santorre Santarosa, Silvio Pellico, Vincenzo Gioberti, Massimo d'Azeglio, J.C.S. Sismondi, Ludovico di Brème, August Schlegel, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Giosuè Carducci, sono tutti autori ispirati da Vittorio Alfieri: la prigione, l'esilio, la morte, la volontà di opporsi ad ogni forma di violenza e di oppressione: gli spiriti più fervidi e agguerriti, in un secolo di lotta come l'Ottocento, non potevano che essere "sanamente malati di alfierismo"

Approfondimento sull'Anima Alfieriana e le Rime, a questo link:  http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/07/vittorio-alfieri-rime-commento-la-dove.html

Fra le opere cosiddette minori, occupa il primo posto il trattato "Della Tirannide", scritto "d'un sol fiato" nel '77.


Alfieri si butta alle spalle il riformismo di Voltaire, Montesquieu, Helvétius, Rousseau; perché le riforme, anche quelle illuminate, sono sempre l'occasione migliore per aumentare il potere dei tiranni, e per addormentare l'istinto di rivolta, il desiderio di libertà. E chi detiene il potere, buono o cattivo, oscurantista o illuminato che sia, ha sempre e dovunque "una facoltà illimitata di nuocere". Nel primo libro del trattato l'Alfieri compie appunto un'attenta analisi dell'inscindibile binomio "potere-tirannia": la tirannide ha il suo fondamento "nella vicendevole paura che governa il mondo" e si regge su tre indispensabili puntelli: la nobiltà, avvilita e degradata a strumento docile di governo; l'esercito, mezzo d'oppressione e di barbarie, rifugio all'ignoranza e alla viltà, e la religione, sfruttata unicamente per la sua forte capacità di educare gli animi a servire.
Nel secondo libro, Alfieri si intrattiene sul modo di comportarsi dell'uomo libero in regime tirannico e sulla possibilità di affrancarsi dalla schiavitù. La prima possibilità, la più coraggiosa, la più decisiva, è il suicidio: come occasione per affermare la libertà, negandosi a una vita, che in regime di oppressione è già morte.
La seconda possibilità è quella di sottrarsi a qualsivoglia forma di vita sociale ritirandosi in solitudine. La terza, e ultima, è quella di uccidere il tiranno, ma con una precisa avvertenza: il tirannicidio per se stesso non è in grado di eliminare la tirannide, anzi, nella forma collettiva e lungamente calcolata della congiura ha sovente un esito rafforzativo; si giustifica perciò nella forma dell'attentato individuale come manifestazione di un animo offeso e già disposto a morire: ancora una volta, in un modo di suicidio. Il "Della Tirannide" rappresenta perciò una rottura, nel quadro della cultura politica dell'epoca. Alfieri non disquisisce sul modo migliore di governare, di gestire il potere, come avevano fatto gli illuministi francesi. Condanna invece qualunque forma di potere in senso assoluto; alza un monumento all'indeterminato impulso rivoluzionario, alla contestazione globale ante litteram.

L'identica atmosfera di dispotismo assoluto è protagonista anche dell'"Antigone". Alfieri aveva sempre sostenuto che la crudeltà, la disperazione e l'oppressione non hanno patria e tempo, sono di sempre e di ogni dove.

La città di Tebe: il tiranno Creonte. Antigone sorella di Polinice giunta in Tebe per dar sepoltura al fratello; Argia moglie di Polinice, che l'accompagna; Emone figlio di Creonte, innamorato di Antigone: questi i personaggi e l'ambiente della tragedia.

La successione delle scene è semplice e lineare: Antigone e Argia giungono in Tebe per un pellegrinaggio funebre. Creonte nega il permesso alla sepoltura, ma le due donne disobbediscono. Interviene Emone presso il padre, supplicando di risparmiare Antigone. Il padre si dice disposto al perdono a condizione che la fanciulla sposi Emone. è questo il punto culminante della tragedia, risolto in modo originalissimo dall'Alfieri, concentrando in un solo endecasillabo cinque diverse battute, una vera esplosione di emotività e di stile:

"Scegliesti?", domanda Creonte;
"Ho scelto!", risponde Antigone.
"Emon?"
"Morte."
"L'avrai."

Nel frattempo Emone, dopo aver liberato Argia,  le consegna le ceneri di Polinice. Antigone ormai è stata uccisa.
Conosciuta la sorte della donna che amava, Emone, generoso e sfortunato, si uccide, esprimendo il desiderio che i suoi resti vengano inumati accanto a quelli di Antigone.

Rispetto al "Filippo", questa terza tragedia contiene almeno due elementi nuovi che arricchiscono le  tensioni sentimentali dei personaggi: la pietà religiosa di Antigone e di Argia, e, in Emone, la purezza di un amore che non è corrisposto. Immediatamente precedente è un altro lavoro sullo stesso tema: "Polinice".

La sete di regno di Eteocle ha spinto il fratello Polinice all'esilio. Lo scontro tra i due, che avrebbero dovuto regnare insieme per volere del padre, è inevitabile. Nella scena seconda dell'atto V, la sorella Antigone racconta: "Ebbro di sangue e di furor, se stesso nulla curando, purch'ei l'altro uccida, Eteocle sul misero fratello la spada, il braccio, sé tutto, abbandona"

Nella scena terza, la tragica famiglia di Edipo è raccolta al completo. Giocasta teneramente disperata, Antigone forte e virile nel suo dolore, e i due fratelli morenti, Eteocle ancora ricco di odio e Polinice che nel momento supremo trova la forza per dimenticare le offese, e per umiliarsi con parole di una generosità quasi cristiana: "Andrai del regio serto fra le avite scettrate ombre fastoso. Ma reverente in atto ombra minore vedrai fratello suddito", che non è semplicemente un chiedere 
perdono, ma trionfare anche su se stesso: un atto di purificazione dinanzi alla morte, ultimo giudice.

D'ambiente romano è invece la quinta tragedia, "Virginia".

Virginia, di origine plebea, fidanzata al tribuno Icilio, avversario acerrimo di ogni tirannia, viene rapita per conto di Appio Claudio, decemviro patrizio che mirava alla sopressione della repubblica e all'instaurazione di un potere personale. Icilio e Virginio, il padre della protagonista, si accordano per muovere il popolo alla all'insurrezione, ma mentre Virginia resiste alle minacce di Appio, i sicari di quest'ultimo uccidono Icilio. L'insurrezione sembra fallire. La moltitudine, che forse gioca il ruolo più importante in tutta la tragedia, tace. Virginio, nell'impossibilità di salvare la figlia dal disonore, chiede di vederla e abbracciatala le trafigge il petto con un pugnale, restituendole così, pur con immenso dolore del padre, l'onore e la libertà.
Questa tragedia, ispirata dalla lettura della narrazione storica fattene da Tito Livio, è un vero atto di ammirazione per il mondo romano, per "la prima virtù", che il nostro Autore avrebbe tanto desiderato fosse rivissuta nell'Italia sua contemporanea.

(Nota Bene: ovviamente mi dissocio dall'idea che uccidere una figlia "per ridarle l'onore", sia un bell'atto di eroismo e virtù, anzi, al massimo è un "bell'atto" di misoginia patriarcale!!!, e per fortuna, almeno da noi, ormai debellata!!!)

Al 19 maggio 1776 risale l'ideazione di altre due tragedie: l'Agamennone e l'Oreste. Una dopo l'altro vengono stese in prosa, e a brevissima distanza di tempo versificate.

Agamennone, il re dei re, sta tornando vittoriosamente in patria. Ma mentre la nave del sovrano è in lotta con la furia del mare, nella reggia di Argo c'è chi attende e spera e c'è chi, pur nella paura, ordisce oscure macchinazioni. Egisto, figlio di Tieste, ha sostituito Agamennone sul trono e al fianco di Clitennestra. Le navi gettano le ancore, Agamennone scende: saluta la sua terra, le cose, le persone amate. In tanta gioia e serenità un'ombra si alza: "Consorte, figlia, voi taciturne state, a terra incerto fissando il guardo irrequieto?"
Le parole affettuose e riverenti della figlia Elettra restituiscono serenità ad Agamennone. Ma è cosa breve. Egisto riesce a convincere subdolamente Clitennestra della necessità che il suo rivale sia ucciso. Clitennestra, che ha già tradito, che ha già simulato una serenità compiacente di fronte al marito, è ormai matura e "degna" di compiere l'atroce impresa.
La paura di perdere l'amante, l'insinuazione di costui che il re ormai le anteponga la schiava Cassandra, non le lasciano altra via che il delitto: Clitennestra uccide Agamennone nel sonno.

Nell'"Oreste" si compie finalmente  il ciclo dei presentimenti, dei terrori e delle vendette iniziatesi con l'Agamennone. Elettra si consuma nel pensiero della sua triste sorte e si consola nella speranza del ritorno del fratello Oreste. Clitennestra è vinta da cupi rimorsi; Egisto persiste nei suoi disegni di morte e progetta l'uccisione di Elettra. Oreste torna accompagnato da Pilade: incontrano Elettra ed entrano nella reggia. Si presentano a Clitennestra, attendono Egisto; violento scontro fra il tiranno e il figlio di Agamennone. Oreste sta per uccidere Egisto, ma colpisce la madre che si era frapposta. Pilade uccide Egisto: l'allucinazione del matricida è disegnata dall'Alfieri nella scena finale: "O padre, Torvo mi guardi? A me chiedesti sangue: e questo è sangue... e sol per te il versai..."

Mirra: tragedia dell'amore incestuoso che Mirra vive per il padre Ciniro, condotta sapientemente attraverso i meandri dell'anima della fanciulla incolpevole. Gli Dei, l'ira di Venere contro l'orgoglio della madre Cecri, hanno alimentato nella sua fragile carne l'orrendo peccato. Mirra è sola, abbandonata, nessuno può aiutarla. Vive soffrendo in silenzio. Solo in fine un breve velato accenno alla sua passione. è quanto basta, perché nella sua mente, quel grido ormai insopprimibile e rivelatore, sostituisca all'immagine dell'Amore-impossibile l'immagine della Passione-Morte. Mirra, con la spada del padre, si uccide.


Saul: il capolavoro dell'Alfieri. In questa tragedia non c'è più e soltanto il drammatico contrasto tra le forze del male da una parte e quelle del bene dall'altra. Saul non è semplicemente "il tiranno", come poteva essere Filippo, ma è "l'uomo" ricco di una psicologia complessa e multiforme, oppressore e vittima allo stesso tempo. Ad ogni istante il suo nemico assume un volto diverso: ora è Javé, implacabile vendicatore, ora è un imprecisato male che affligge il suo vecchio corpo, ora è l'ostilità dei sacerdoti; in altri momenti è David, insidioso rivale, altre volte Abner o il sospetto verso i suoi figli. I suoi veri nemici, sono, in verità, la sua coscienza e il mistero profondo che avvolge il breve cammino terrestre.

Caratteri e motivi della tragedia e della poesia alfieriana

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La decisione alfieriana di privilegiare il teatro tragico va attribuita al fatto che la tragedia, in quanto genere letterario fondato sulla rappresentazione di intense passioni ma anche fortemente strutturato, consente allo scrittore piemontese di soddisfare due esigenze per lui ugualmente fondamentali: da un lato, quella di consentire il libero dispiegamento di una personalità irruente e appassionata, e dall'altro quella di racchiudere istinti e impulsi passionali in una cornice di compostezza e di organicità, grazie all'obbligo di attenersi alle regole classiche.
Il poeta dunque non apporta variazioni alla struttura della tragedia antica e rispetta le unità aristoteliche; ciononostante introduce all'interno dello schema classico elementi originali e di grande modernità, fra cui il procedimento in tre fasi, seguito per la stesura.
Al di là della tecnica e dei soggetti, le tragedie sono accomunate da un solo motivo: la lotta, lo scontro durissimo che oppone un individuo eroico a una realtà ostile, sia essa rappresentata da un altro uomo o da una forza interiore. 
Questo schema generale si approfondisce e si arricchisce di sfumature nel corso degli anni.
Nelle prime tragedie ("Filippo", "Antigone") predomina la contrapposizione esteriore, fisica, tra un eroe e un tiranno; ma poco a poco la prospettiva muta e l'interesse dello scrittore si sposta sul conflitto interiore, sull'urto tra componenti diverse che agitano e turbano un unico personaggio. Del resto, fin dalle prime opere l'Alfieri sembra muoversi all'interno di un circolo vizioso e, come già avveniva nei trattati politici, l'alternativa tra tirranicidio e suicidio si rivela fittizia. 
L'eroe e il tiranno sono figure solo apparentemente antitetiche, sono due facce di una stessa personalità. Esse incarnano l'eterno conflitto tra il bene e il male, la lacerazione psicologica, la doppiezza degli istinti che convivono in un solo uomo. L'eroe suicida non è molto diverso da chi, nel sopprimere il tiranno, uccide "l'altra parte di sé".
Lo spostamento di prospettiva è il più evidente nelle ultime tragedie. In esse, i personaggi non protagonisti assolvono una funzione ormai marginale e tendono a sfumare, quasi a scomparire ripetto all'"un solo", preda e vittima della propria inquietudine, travolto dal processo fatale e irriversibile che lo condurrà alla distruzione o, più spesso, all'autodistruzione.
Tale aspetto si nota benissimo nelle tragedie maggiori, il "Saul" e la "Mirra", che a ragione possono essere definite "Tragedie psicologiche". In ambedue il protagonista è unico, un personaggio "appassionato di due passioni tra loro contrarie", che "a vicenda vuole e disvuole una cosa stessa".
Questo conflitto di sentimenti determina la crisi di re Saul, lacerato tra la superbia e il senso di colpa verso il genero David, tra la brama di dominio, non ancora spenta, e il profondo aspetto paterno. 
Saul è consapevole della propria iniquità nel perseguitare David, ma è incapace di porvi rimedio, perché in David, che Dio ha destinato a succedergli sul trono, egli già vecchio, vede il trionfo della giovinezza e della forza che la natura stessa gli impedisce ormai di avere. Il suicidio è la sola risorsa che gli resta per cercar di superare le sue contraddizioni e riscattare la propria anima in un estremo recupero di grandezza morale.
Ancora più insanabile è il contrasto che agita Mirra: per lei il suicidio è l'unica forma di riscatto per quell'amore incestuoso che la legge degli uomini condanna e che ella per prima vive come una colpa, cercando vanamente di nasconderlo e di reprimerlo.
In ambedue le tragedie l'Alfieri sottolinea vigorosamente lo scontro tra l'aspirazione dell'individuo ad affermare se stesso attraverso un eroismo sovrumano e la consapevolezza dei limiti imposti dalla fragilità umana. 
Dalla contraddizione emerge un senso profondo di pessimismo, una tendenza a ripiegarsi, a indagare dentro di sé e, infine, quasi una forma di incapacità di vivere, che spinge a cercare la liberazione nella morte.

A differenza degli Illuministi, i quali tendono alla conquista del benessere per la società intera e quindi di un utile collettivo e concreto, l'Alfieri interpreta la vita e l'arte come una lotta del singolo contro tutto ciò che si oppone alla sua ricerca di libertà interiore; alla radice di ogni sua scelta esistenziale e poetica si trova quindi il convincimento che l'individuo debba tendere all'affermazione di se stesso, avere "una sete insaziabile di ben fare e di gloria...un'infiammata e risoluta voglia o di esser primo fra gli ottimi, o di non esser nulla", nella prospettiva di una vittoria personale e ideale.

Per l'Alfieri qualunque azione umana, anche la lotta contro la tirannide, è sempre la sfida astratta e aristocratica di un eroe solo e indomabile, teso verso la conquista di una libertà assoluta e priva di compromessi, a cui si oppone un potente altrettanto solo e dotato di altrettanta, sia pur perversa, grandezza.
Alla base del pensiero dell'Alfieri sta dunque un'evidente perdita di identità storica; il suo "eroe" vive fuori e spesso in contrasto con il mondo della storia, e la lotta contro il potere si traduce in una condizione esistenziale, avulsa dallo spazio e dal tempo, che difficilmente riesce a trasformarsi in azione.

I mezzi concreti che l'Alfieri indica per sottrarsi alla schiavitù e per garantire all'uomo la sua individualità e atipicità si riducono in sostanza a tre. 
Il primo è l'isolamento, premessa indispensabile per ricercare la gloria, "del pensar, del dire e dello scrivere", e per evitare il conformismo, che si annida e si espande in ogni classe e in ogni concezione sociale e politica, anche in quelle apparentemente progressiste. 
Il secondo è il suicidio, ossia il "generosamente morire per non vivere servo", non una sorta di sconfitta, ma affermazione o riscatto eroico della propria libertà di uomo (Nota di Lunaria: questo passaggio ha una valenza "satanica", nel senso originario del termine: non si accetta di aspettare che sia il dio cristiano a scegliere quando farci morire, ma si decide da sé quando è venuto il momento giusto per farlo all'apice del proprio successo, perché si è il Dio/la Dea di se stessi). 
Infine, vi è il tirannicidio, che è un gesto di rivolta estrema. 
Esso tuttavia deve rimanere un atto del singolo, un'impresa individuale; infatti la congiura, progettata ed eseguita da più persone, contiene sempre elementi di ambiguità e permette di uccidere il tiranno ma non di cancellare la tirannide. 
Nella prospettiva alfieriana, il tirannicidio si avvicina e quasi coincide con il suicidio, perché chi si erge contro l'oppressore è già disposto a sacrificare la propria vita.
Questa concezione, più volte espressa nelle tragedie e nei trattati politici, risale alla cultura antica e in particolare alla trasfigurazione ideale dell'eroe che l'Alfieri trova in Plutarco, lo scrittore da lui forse più amato. Nelle "Vite Parallele" dello storico greco egli vede rivivere figura magnanime, capaci di "dire o fare alte cose".
All'inizio della "Vita", l'Alfieri dichiara che a scrivere di sé lo ha spinto "l'amor di se stesso". In altre parole, il poeta è l'eroe per eccellenza: l'uomo reso eccezionale dalla intensità dei sentimenti e dalla nobiltà dei suoi ideali: è consapevole del suo talento e lo mette al servizio della verità e della bellezza; alla capacità di agire egli stesso in prima persona, unisce anche e soprattutto quella di ispirare e guidare l'azione altrui attraverso il linguaggio eterno e sublime della poesia; è il vate, il profeta che ha il compito di diffondere e di esaltare i principi di libertà  e di trasmettere i più nobili valori morali.

ALTRO APPROFONDIMENTO, tratto da


Spesso, di un grande personaggio si dice che "la sua vita fu un romanzo" o "il suo capolavoro fu la sua vita": per Vittorio Alfieri (che se resuscitasse, oggigiorno sarebbe innamorato di Lunaria, ovviamente) il suo capolavoro fu la sua "Vita", l'autobiografia più famosa della letteratura italiana.

E la sua vita fu piena di furenti passioni, di tentati suicidi e di ideali contro ogni meschinità, di riscatto morale che riabilitò una giovinezza sprecata, con un'incredibile e ferrea applicazione agli studi nell'età matura; l'impegno dell'Alfieri diede un senso al vacuo anelare verso un ideale ancora imprecisato, facendosi portavoce di un impegno morale e civile, la conquista della Libertà.

Vittorio Alfieri nacque ad Asti nel 1749, figlio di un conte e di una contessa. 

Eppure, forse proprio per questo, Vittorio fu ribelle alle convinzioni nobiliari: "Il nascere della classe dei nobili, mi giovò... moltissimo", scriveva Alfieri, "per poter poi, senza la taccia d'invidioso e di vile, dispregiare la nobiltà per sé sola, svelarne le ridicolezze, gli abusi, ed i vizi".
Frequentò fino ai 17 anni l'Accademia di Torino, appassionandosi ai cavalli; poi vagò per l'Europa dopo aver visitato l'Italia e averla trovata "piena di ipocriti fantocci" (Nota di Lunaria: vedesse oggigiorno, come siamo messi...)

E all'estero trovò lo stesso campionario di cavalieri con il codino incipriato, di damine ignoranti (per l'appunto, Egli già vagheggiava Lunaria, meditando di darsi a lei anima e cuore...), di artisti ritenuti grandi che si avvilivano a fare "la genuflessioncella d'uso" ai potenti e insulsi sovrani.

Così, mentre portava in giro la sua rabbiosa furia, sperando di trovare qualche ideale per cui vivere e morire, passando da un amore ad un duello, da una crisi di disperazione all'esaltazione per la propria originalità d'ingegno, nacque in lui il desiderio "di farsi di ferro in un secolo in cui gli altri erano di polenta": 
"Io viveva frattanto in tutto e per tutto ignoto a me stesso (...) non avendo nessunissimo impulso deciso altro che alla continua malinconia; non ritrovando mai pace né requie"

Ed egli intuì la sua strada mentre stava vegliando un ammalato: 
gli venne il desiderio di scrivere una tragedia su Cleopatra, la cui immagine poteva ammirare da un arazzo appeso al muro.
Quando l'opera fu completa, la fece rappresentare. 
Fu un enorme successo, tra repliche applauditissime al Teatro di Torino.
Il pubblico andò in estasi di fronte a questa tragedia, scritta da un giovane italiano.

L'Alfieri capì che se voleva seguire la strada dell'arte e del teatro doveva formarsi una solida cultura: "Volli, sempre volli, fortissimamente volli": aveva 27 anni, doveva rimediare a dieci anni spesi male, e armato di volontà, si fece persino legare alla sedia per darsi ad uno studio furibondo. 
Morì nel 1803, celebrato come il padre della Tragedia Italiana.

Non possiamo capire fino in fondo la portata delle sue innovazioni teatrali se non ricordiamo quel che era diventato il teatro ai suoi tempi: uno spettacolo pieno di paccottiglia sentimentale-decorativa, senza nerbo, raramente con qualcosa di serio da dire.

L'essenzialità, la stringatezza dei versi alfieriani, è il mezzo per far risaltare in tutta la sua vigorosa nudità il contenuto delle sue tragedie.

Il tema fondamentale dell'Alfieri è sempre quello della Libertà, in special modo politica e civile.
Vittorio Alfieri sottolinea sempre l'esaltazione del Ribelle, dell'Eroe che va contro l'ordine precostituito (1), contro la tirannia.
I suoi drammi vogliono insegnare il gusto della libertà eroica e l'Arte è lo strumento che ridesta la coscienza addormentata.
Altri temi affrontati dall'Alfieri sono l'amore e l'ambizione.

Come sosteneva l'Alfieri:

"Io credo fermamente che gli uomini debbano imparare in teatro ad essere liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti d'ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei propri diritti, e in tutte le passioni loro ardenti, retti e magnanimi.
Tale era il teatro d'Atene, e tale non può essere mai un teatro cresciuto all'ombra d'un principe qualsivoglia..."

Da questi nobili intenti educativi traggono vigore i personaggi alfieriani: Bruto, Oreste, Antigone, Don Garzia, Saul... titani che declamano con enfasi eroica. 
Alfieri ha la stessa concezione della tragedia classica greca:
nel teatro alfieriano non ci sono personaggi scialbi, trascurabili, sono abolite le scene non essenziali, i personaggi secondari, le comparse.
Tutti, sia i tiranni sia gli eroi che li fronteggiano, sono protagonisti:
"La mia maniera (...) è sempre di camminare quanto so a grandi passi verso il fine (...) Chi ha osservato l'ossatura di una delle mie tragedie, le ha quasi tutte osservate. Il primo atto brevissimo (...) molto dialogo; i quinti atti strabrevi, rapidissimi favellatori. Ecco in uno scorcio l'andamento similissimo di tutte le mie tragedie."

Drammatica sinteticità, violenti e frequenti scontri verbali tra eroe ribelle e tiranno, scarsi i fatti che accadono, perché tutto il dramma si accentra nel dialogo.
Anzi, l'Autore sopprime l'azione che dovrebbe concludere il dramma, il tirannicidio, la vittoria della Libertà sull'oppressione: preferisce lasciare nella mente dello spettatore l'attesa della vendetta sacra, preferendo anche mostrare la tirannia che uccide se stessa, il tiranno che espia l'inevitabile punizione.

Di Saul, personaggio della sua tragedia più celebre, che incarna il tiranno, Alfieri fa dire al profeta:

"E tu chi sei? Re della terra sei:
ma innanzi a Dio, chi re? - Saùl, rientra in te; non sei che coronata polve" 

E la punizione del tiranno giungerà il giorno della battaglia contro i Filistei.
Saul, ormai distrutto e vinto, si ucciderà gettandosi sulla sua spada:

"[...] Sei paga, d'inesorabil Dio terribil ira?
Ma tu mi resti, o brando: all'ultim uopo.
Fido ministro, or vieni. Ecco già gli urli dell'insolente vincitor: sul ciglio
già lor fiaccole ardenti balenarmi
veggo, e le spade a mille... Empia Filiste me troverai, ma almen da re, qui... 

(nell'atto ch'ei cade trafitto sulla propria spada soprarrivano in folla i Filistei vittoriosi con fiaccole incendiarie e brandi insanguinati. Mentre costoro corrono con alte grida verso Saul, cade il sipario) 

...morto"

è una scena di terribile grandezza, sostenuta dalla maestria tecnica del far irrompere i nemici vittoriosi proprio nell'atto estremo del suicidio, come indica la didascalia dello stesso Autore.
Saul, il tiranno, è morto: il limite della demarcazione fra Bene e Male è nettissimo nei personaggi alfieriani.

La concisione dell'Alfieri, necessaria all'essenzialità dei suoi drammi, era frutto di un paziente lavoro di revisione: Alfieri sfrondava versi su versi, fino ad arrivare ad una stringatezza incredibile. 
La prima scena del quarto atto dell'"Antigone" è stata resa così:

- Scegliesti?
- Ho scelto.
- Emon?
- Morte.
- L'avrai.

L'ultima scena del secondo atto del "Filippo" è stata ridotta a pochissimi versi:

- Udisti?
- Udii.
- Vedesti?
- Io vidi.
- Oh, rabbia!
Dunque il sospetto?
- è ormai certezza.
- E inulto [invendicato]
Filippo è ancor?
- Pensa.
- Pensai. Mi segui.

A volte questi dialoghi alfieriani sono ermetici, quasi come se fossero un parlare cifrato.
L'atmosfera asciutta, però, è drammatica e solenne.

Tuttavia, all'epoca, il linguaggio alfieriano venne parodiato in molti modi: venne composta una pseudo tragedia alfieriana che venne rappresentata spacciandola per autentica; i personaggi erano solo tre, Socrate, sua moglie Santippe e Platone. Il tenore era di questo tipo:

- Dillo.
- Nullo.
- Non sailo?
- Sollo.
- Sallo.

Il pubblico scambiò la parodia per una vera tragedia alfieriana e applaudì quello che credeva essere il nuovo capolavoro di Vittorio Alfieri...

Vittorio Alfieri visse in quell'tà di trapasso tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, ondeggiando tra Classicismo e Pre-Romanticismo: la forma è classica ma il contenuto è preromantico... non a caso tutto l'Ottocento romantico si riconosceva nello spirito di quel ribelle precursore dei tempi nuovi.

Nota di Lunaria: a me piacciono anche le poesie di Vittorio Alfieri.

Certamente, a vedere tutto quanto io ho trascritto per celebrarlo, egli Mi amerebbe di una devozione appassionata, scrivendo per Me una nuova tragedia...

LE TRAGEDIE ALFIERIANE:

Filippo
Polinìce
Antìgone
Virginia
Agamènnone
Oreste
Rosmunda
Ottavia
Timoleòne
Mérope
Maria Stuarda
La congiura de' Pazzi
Don Garzìa
Saul
Agide
Sofonìsba
Bruto I
Mirra
Bruto II
Antonio e Cleopatra
Alcèste II

 
(1) Nota di Lunaria: Come Lucifero, ribelle contro l'autorità dittatoriale del dio padre cristiano... o il Satana ottocentesco, visto come Portatore della Fiaccola della Ragione e del Progresso contro l'oscurantismo religioso... 
In un'ottica ginocentrica, la Donna che si ribella alle religioni patriarcali e misogine, affermando Se Stessa e rifiutando di prostrarsi al dio patriarcale despota e misogino: NON SERVIAM.  
Comunque, l'esaltazione del Singolo, dell'Unico, che si distingue dalla massa di dementi smidollati e pecoroni, la troviamo anche in Max Stirner con "L'Unico e la sua proprietà"
 
Nota di Lunaria: in genere mi piace leggere Alfieri e autori simili con sottofondo dei primi Cradle of Filth, specialmente quelli di "Dusk and Her Embrace" che si abbinano così bene a queste atmosfere nonché alle mie fantasie sentimental-sessuali...

Comunque, mentre trascrivevo questo post ho messo come sottofondo i Bal Sagoth (dell'album "A Black Moon Broods Over Lemuria") perché il loro Symphonic Black Metal è teatraleggiante, con gli spoken word molto particolari (anche troppo teatraleggianti, in un cd come "Battle Magic", che eccedeva in effetti "epici e sinfonici"...) e quindi si abbina bene parlando di teatro...





Devo dire che all'epoca (1999) i Bal Sagoth non li considerai molto, anche perché nelle recensioni e nei commenti sulle riviste Metal  venivano per lo più ridicolizzati... Li ho recuperati da un paio di anni, quando mi è venuta la nostalgia per tutto quello che è uscito tra il 1996 e il 2000... Rivalutandoli a così tanti anni di distanza devo dire che secondo me all'epoca furono poco capiti, perché piuttosto stravaganti e "avanti con i tempi"... purtroppo non li ho in formato originale! Ma volevo comprarmeli.

 Anche gli Amor E Morte, band bulgara purtroppo sciolta, con 
"About These Thornless Wilds" (2007) esaltano al meglio lo stile colto e tragico di Alfieri!



GALLERIA DI IMMAGINI

































Per un commento al "Filippo", vedi qui: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/07/vittorio-alfieri-commento-al-filippo.html

Per un commento più approfondito al "Saul": http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/08/il-saul-di-vittorio-alfieri-lemergere.html

Per i versi più belli di "Merope": http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/11/il-sangue-e-la-vendetta-i-versi-piu.html

Per "Maria Stuarda" http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/11/le-pagine-piu-belle-della-maria-stuarda.html 

Altro post: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/01/la-tomba-di-vittorio-alfieri.html

Per i versi più belli di "La Congiura de' Pazzi": https://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2018/01/la-congiura-de-pazzi-di-alfieri-i-versi.html

Don Garzia: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2018/01/don-garzia-di-vittorio-alfieri-le.html

Mirra: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2018/02/mirra-di-vittorio-alfieri-i-versi-piu.html

Le incisioni più belle: