I versi più belli di Gabriello Chiabrera e Alessandro Tassoni

Tratti da




GABRIELLO CHIABRERA
nacque a Savona nl 1552 e ivi muore nel 1638.
La sua prima opera, il poema eroico "Delle Guerre dei Goti", viene pubblicato a Venezia nel 1582. Seguono la "Firenze", "Amadeide", "Foresto", "Ruggero". Numerose sono le favole boscherecce: "Il pianto di Orfeo", "Alcippo", "Il rapimento di Cefalo" e le liriche: Scherzi, Canzoni, Canzonette varie, Sonetti. In prosa scrisse i Dialoghi, i Discorsi e una autobiografia.

Gli Scherzi e le Canzonette costituiscono due momenti della storia della poesia del Chiabrera: brevi componimenti i primi, di carattere essenzialmente amoroso: tormento, ansia sottile di attesa, vana ricerca della donna amata, ricordi, invocazioni accorate. I nuovi tipi di strofe proposte dalla Canzonetta di Chiabrera li raccoglierà la poesia ventura dell'Arcadia.

In "Chiama gli occhi a confortare le sue pene amorose" i tormenti e l'ansia di amore vengono qui espressi dal Chiabrera attraverso un succedersi di immagini artificiosamente costruite, cariche di estrema concretezza: gli "aspri martiri" disposti in irta schiera, il "saettar crudele degli arcieri", le "arrossate ferite del cuore". Come la poetica barocca insegnava: ricchezza discorsiva varia ed estuosa, che destasse meraviglia.

Schiera d'aspri martiri
dà battaglia di morte alla mia vita;
lume di duo degli occhi aìta, aìta!
Mille amorosi arcieri
hannosi il fianco mio per segno eletto,
e sempre acerbi e fieri
ivi di saettar piglian diletto.
Ah che dentro del petto
è già tutto il mio core una ferita:
lume di duo begli occhi aìta, aìta!

In "Si consola del passato" nel ricordo del passato e nel rimpianto di ciò che è stato il poeta trova consolazione all'amarezza del presente. Sono cadute qui le immagini eccessivamente concrete, presenti invece negli "Scherzi"; il discorso procede più lieve e delicato, "rapidissimo volo" appunto, nel vagheggiamento di giorni e di affetti lontani.

Mio cor cotanto è vinto, (1)
che stare incontra il duol non ha possanza,
né di stato miglior meco è speranza. (2)
Rapidissimo volo, (3)
che ten portarsti il viver mio beato,
so che un momento solo
più non godrò giammai del bene amato.
Pur col gioir passato
la vita addolcirò, ch'aspra m'avanza:
non ha poco poter la rimembranza.

(1) Non può opporsi al dolore, tanto è grave quel dolore e tanto il cuore è profondamente amareggiato.
(2) Il poeta non spera più neppure in un migliore domani.
(3) Trasparente e fugace come quel volo che tutto aveva dato e tutto ha tolto al poeta


"Belle rose porporine"

Belle rose porporine (1),
che tra spine
sull'aurora non aprite; (2)
ma, ministre degli amori,
bei tesori
di bei denti custodite. [...]
Belle rose, o feritate, (3)
o pietate
del sì far la cagion sia,
io vo' dire in nuovi modi
vostre lodi,
ma ridete tuttavia.

(1) Allusione alle labbra della donna
(2) non sorridete
(3) crudeltà


"Invita Amarilli alla campagna": il Chiabrera celebra la bellezza di Amarillide circondata dal fascino della natura

Amarillide, deh vieni:
[...] vieni almen per trarre un'ora
tutta lieta e dilettosa:
qui vermiglia esce l'aurora,
qui la terra è rugiadosa;
qui trascorre onda d'argento;
qui d'amor mormora il vento.
Mirerai rive selvagge,
chiusi boschi, aperti prati,
spechi (1) ombrosi, apriche piagge,
valli incolte e colli arati [...]

(1) Caverne, grotte


"L'Erminia"
(poemetto basato sui personaggi di Torquato Tasso)

"Ed ecco Erminia, che in negletti veli, sangue real, quasi lugubre ancella, li move incontra, e colle ciglia oscure di lagrimosa nube, a lui s'inchina (1) e dolente il saluta...

(1) a Tancredi


Qui è descritto il suicidio di Erminia:

"Va per aspre pendici e va per monti, nociv'erbe cogliendo, ond'ella preme licor temuto di mortal veleno (1)
... e le purpuree labbra del tosco asperse (2) e quell'orrido succo mandò nel petto a saziarne il core."

(1) raccoglie erbe velenose e le spreme per ricavarne un veleno
(2) e beve il veleno


"Pianto d'Orfeo"

[La morte di Euridice]

ORFEO: Ecco pur ch'a voi ritorno
care selve e piagge amate,
da quel sol fatte beate
per cui sol mie notti han giorno.

PASTORE: Mira ch'a sé n'alletta
l'ombra, Orfeo, di que' faggi
or ch'infocati raggi
Febo dal ciel saetta.
Su quelle erbose sponde
posiamci e 'n varii modi
ciascun sua voce snodi
al mormori de l'onde.

ORFEO: Vi ricorda, o boschi ombrosi,
de' miei lunghi aspri tormenti,
quando i sassi a' miei lamenti
rispondean, fatti pietosi?
Dite, allor non vi sembrai
più d'ogni altro sconsolato?
Or fortuna ha stil cangiato
ed ha vòlti in festa i guai.
Vissi già mesto e dolente,
or gioisco, e quegli affanni
che sofferti ho per tant'anni
fan più caro il ben presente.
Sol per te, bella Euridice,
benedico il mio tormento,
dopo 'l duol vie più contento,
dopo 'l mal vie più felice.

ORFEO, PLUTONE

ORFEO: Numi d'abisso, numi
de l'infernal soggiorno,
ecco ch'a voi ritorno
con lagrimosi fiumi;(1)
[...] E se fur miei lamenti
da voi pur dianzi uditi,
oggi non sian scherniti
che gli fo più dolenti
sul tenor tanto acerbo
di mia cruda sventura;
numi, deh, ripensate,
e di mia vita oscura
costringavi pietate.(2)
Invan per me s'attende
giorno di duol men forte
se l'amata consorte
per voi non mi si rende;
già mai tra lunghi affanni
il lagrimar non resta (3)
onde le guance inondo,
ed ogni cosa è mesta
pur per questi occhi al mondo.
Non ha seco sereno
Febo, (4) s'esce dal mare,
e se la notte appare (5)
non ha stellato il seno;
in sul più vago aprile
nembo di pioggia e vento
fammi terribil verno;
pietà del mio lamento,
pietà, numi d'Inferno.

(1) con voce di pianto
(2) vi prenda pietà
(3) non cessa il pianto
(4) lo splendore della luce del sole non porta con sé il sereno
(5) La notte, come Febo, è qui personificata


SCENA SECONDA: Orfeo racconta della morte di Euridice, che, punta da un serpe (angue) venne meno e precipitò negli abissi. Egli allora impetrò i favori e la comprensione di chi laggiù regna (corregge) e gli fu concesso di riavere Euridice, a patto che non si voltasse per tentare di vederla, mentre risaliva dal Tartaro. Per il troppo amore, Orfeo non riuscì ad attenersi ai patti e fu punito, cioè privato della sua sposa.

ORFEO: Ascolta, o genitrice,
ascolta e piangi poi l'aspra ventura
del figliuolo infelice.
Io godea la bellezza
amata oltre misura
de la cara Euridice,
et ella in sul fiorire,
punta da picciolo angue,
si condusse a morire;
et io più di lei morto
corsi dentro gli abissi, et impetrai
da chi colà corregge
il mio dolce conforto
ma con sì fatta legge
che mentre colà giù moveva i passi
io non la riguardassi.
[...] una volta,
ahi lasso, io la mirai
e me la vidi tolta;
e piansi e sospirai [...]

CALLIOPE: De l'atro Averno
rettor supremo e de l'orribil Dite,
e voi, ch'al cenno suo pronti ubbidite,
spirti d'inferno,
udite un'amator, ch'a voi dolente
chiede pietà,
e che senza Euridice, onde era ardente,
viver non sa. [...]
Indarno è far dimora,
l'inferno è sordo e cieco;
Orfeo, vientene meco.


SCENA TERZA

ORFEO: Rive ombrose e selvagge,
deserte orride piagge
solinghi alpestri monti,
e voi, torbidi fonti,
rupi non giamai liete,
or per sempre accogliete
nel caso infausto e reo
il sì dolente Orfeo.
Sentite omai, sentite
mie miserie infinite,
e quel ch'attrista il core
infinito dolore;
udite i miei lamenti
sì forti e sì possenti,
che non gli prese a scherno
il tenebroso inferno.
Lasso, già volsi il piede
ver' la tartarea sede,
e piangendo impetrai
lo scampo di miei guai;
ma, mentre ch'io il rimiro
vinto dal gran desiro,
o miser occhi miei
io per sempre il perdei.
Bella, per cui felice
vissi, un tempo, Euridice,
benché mesta dimori
giù ne i profondi orrori,
non pertanto men dura
di me la tua ventura,
se qua su, di te privo,
miseramente io vivo.
[...] Ma che dico io? solo contemplo il duolo,
solo ne' guai voglio trovar conforto,
e solo aita porgo al cor già morto
quando a voi col pensier me'n vegno a volo.
[...] Cinto il crin d'oscure bende
notte ascende
per lo ciel su tacite ali
e con aer tenebroso
dà riposo
a le ciglia de' mortali.
[...] Rive, addio,
troppo liete a' dolor miei;
vegno a voi, monti silvestri,
fiumi alpestri,
vegno a voi, ghiacci rifei.


Per un confronto, riporto anche la versione di Ottavio Rinuccini:
"Euridice" (1600) http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/12/i-versi-piu-belli-di-ottavio-rinuccini.html

Il monologo di Orfeo:

Antri, ch'ai miei lamenti
rimbombaste dolenti, amiche piagge,
e voi, piante selvagge,
ch'a le dogliose rime
piegaste per pietà l'altere cime,
non fia più no che la mia nobil cetra
con flebil canto a lagrimar v'alletti:
ineffabil mercede, almi diletti
amor cortese oggi al mio pianto impetra.
Ma deh, perché sì lente
del bel carro immortal le rote accese
per l'eterno cammin tardano il corso?
[...] Venga, deh venga ormai la bella sposa
tra 'l notturno silenzio e i lieti orrori
a temprar tante fiamme e tanti ardori.

["La morte di Euridice"]

Dafne: per quel vago boschetto,
ove rigando i fiori
lento trascorre il fonte de gli allori,
prendea dolce diletto
con le compagne sue la bella sposa.
[...] e qual posando il fianco
su la fiorita sponda
dolce cantava al mormorar de l'onda;
ma la bella Euridice
movea danzando il piè su 'l verde prato,
quando, ria sorte acerba!
angue crudo (1) e spietato,
che celato giacea tra' fiori e l'erba,
punsele il piè con sì maligno dente,
ch'impallidì repente
come raggio di sol che nube adombri,
e dal profondo core
con un sospir mortale
sì spaventoso ohimè! sospinse fore,
che, quasi avesse l'ale,
giunse ogni Ninfa al doloroso suono,
et ella in abbandono
tutta lasciossi allor ne l'altrui braccia.
Spargea il bel volto e le dorate chiome
un sudor via più freddo assai che ghiaccio
indi s'udio il tuo nome
tra le labbra sonar fredde e tremanti,
e, volti gli occhi al cielo,
scolorito il bel viso e i bei sembianti,
restò tanta bellezza immobil gelo.

(1) serpente crudele


Bellissimo è anche questo lamento di Orfeo:

"Funeste piaggie, ombrosi orridi campi,
che di stelle o di Sole
non vedeste giammai scintill'e lampi,
rimbombate dolenti
al suon de l'angosciose mie parole,
mentre con mesti accenti
il perduto mio ben con voi sospiro:
e voi, deh, per pietà del mio martiro,
che nel misero cor dimora eterno,
lagrimate al mio pianto, ombre d'Inferno [...]
Lagrimate al mio pianto, Ombre d'Inferno.
E tu, mentre al ciel piacque,
luce di questi lumi
fatti al tuo dipartir, fontan'e fiumi,
che fai per entro i tenebrosi orrori? [...]
Lagrimate al mio pianto, Ombre d'Inferno."

Orfeo si rivolge al Re degli inferi, Plutone:

"O de gli orridi e neri
campi d'Inferno, O de l'altera Dite,
Eccelso Re, che a le nud'ombre imperi,
per impetrar mercede,
vedovo amante, a quest'abisso oscuro
volsi piangendo e lagrimando il piede."

Plutone: "Sì dolci note e sì soavi accenti
non spargesti in van, se nel mio regno
impetrasser mercé pianti o lamenti."

Vedi anche: http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/09/poesia-barocca-del-seicento.html


ALESSANDRO TASSONI

 
In dodici canti di ottave, "La secchia rapita" per unanime definizione introduce nella storia della letteratura italiana un nuovo genere:  il poema eroicomico. Le gesta degli antichi paladini, le virtù dei cavalieri, le tenzoni per conquistare l'amore di una bella dama, vengono parodizzati e diventano carichi di sorriso e di farsa.

In breve, la trama: per una secchia rapita dai Modenesi ai Bolognesi, le due città vengono a lotta tra loro; un duello saturo di buffa comicità e che si sana solo quando viene stabilito che i Modenesi potranno tenere la secchia, e i Bolognesi, invece, Re Enzo prigioniero.

Nota di Lunaria: Qui riporto il mio passo preferito: Venere sta navigando sul mare e i venti inscenano una garbata tenzone nel contendersi il primato per sospingere l'imbarcazione della Dea sui flutti. Per quanto nelle intenzioni dell'Autore questo dovesse essere un passo comico in realtà l'alto linguaggio scelto lo rende, oggigiorno, paradossalmente ammantato di una bellezza letteraria "elitaria".
Si veda ad esempio la stupenda descrizione della tempesta all'arrivo di Scirocco.

Così cantava il conte innamorato
a lei che del suo amor fra sé ridea.
Ma Venere fra tanto in altro lato
le campagne del mar lieta scorrea:
un mirabil legnetto apparecchiato
a la foce de l'Arno in fretta avea;
e movea quindi a la riviera amena
de la real città de la Sirena [Venezia]

per incitar il principe novello
di Taranto ad armar gente da guerra,
e liberar di prigionia il fratello
che chiuso sta ne la nemica terra.
Entra ne l'onda il vascelletto snello,
spiega la vela un miglio o due da terra.
Siede in poppa la Dea, chiusa d'un velo
azzurro e d'oro agli uomini ed al cielo.

Capraia a dietro e la Gorgona lassa, (*)
e prende in giro a la sinistra l'onda;
quinci Livorno e quindi l'Elba passa,
d'ampie vene di ferro ognor feconda;
la distrutta Faleria in parte bassa
vede e Piombino in su la manca sponda,
dov'oggi il mare adombra il monte e 'l piano
l'aquila del gran re de l'Oceàno.

Tremolavano i rai del sol nascente
sovra l'onde del mar purpuree e d'oro;
e in veste di zaffiro il ciel ridente
specchiar parea le sue bellezze in loro:
d'Africa i venti fieri e d'oriente
de le fatiche lor prendean ristoro;
e co' sospiri suoi soavi e lieti
sol Zefiro increspava il lembo a Teti.

Al trapassar de la beltà divina
la fortuna d'amor passa e s'asconde.
L'ondeggiar de la placida marina
baciando va l'inargentate sponde.
Ardon d'amore i pesci, e la vicina
spiaggia languisce invidiando a l'onde;
e stanno gli Amoretti ignudi intenti
a la vela, al governo, ai remi, ai venti.

Quinci e quindi i delfini a schiere a schiere
fanno la scorta al bel legnetto adorno;
e le ninfe del mar pronte e leggiere
corron danzando e festeggiando intorno.
Vede l'Umbrone (**) ove sboccando ei père
e l'isola del Giglio a mezzogiorno;
e in dirupata e ruinosa sede
monte Argentaro in mezzo a l'onde vede.

Quindi s'allarga in su la destra mano,
e lascia il Porto d'Ercole a mancina;
vede Civitavecchia, e di lontano
biancheggiar tutto il lido e la marina.
Giaceva allora il Porto di Traiano
lacero e guasto in misera ruina;
strugge il tempo le torri e i marmi solve
e le machine eccelse in poca polve.

Già la foce del Tebro era non lunge,
quando si risvegliò Libecchio altiero
che 'n Libia regna, e dove al lido giunge,
travalca sopra il mar, superbo e fiero:
vede l'argentea vela, e come il punge
un temerario suo vano pensiero,
vola a saper che porti il vago legno,
e intende ch'è la Dea del terzo regno.

Onde orgoglioso e come invidia il move,
a Zefiro si volge, e grida: "O resta,
o io ti caccierò nel centro dove
non ardirai mai più d'alzar la testa.
A te la figlia del superno Giove
non tocca di condur: mia cura è questa.
Va' tu a condur le rondini al passaggio,
e a far innamorar gli asini il maggio."

Zefiro, ch'assalito a l'improviso
da l'emulo maggior quivi si mira,
ne manda in fretta al suo fratello aviso
che su l'Alpi dormiva, e 'l piè ritira.
Corre Aquilon, tutto turbato in viso,
ch'ode l'insulto, e freme di tant'ira,
che fa i tetti cader, gli arbori svelle,
e la rena del mar caccia a le stelle.

Libecchio che venir muggiando insieme
i due fratelli di lontano vede,
si prepara a l'assalto; e già non teme
del nemico furor, né il campo cede:
tutte raguna le sue forze estreme,
e dal lido african sciogliendo il piede,
chiama in aiuto anch'ei di sua follia
Sirocco regnator de la Soria.

Vien Sirocco veloce; onde s'accende
una fiera battaglia in mezzo a l'onde.
Si turba il ciel, si turba l'aria, e stende
densa tela di nubi e 'l sol nasconde:
fremono i venti e 'l mar con voci orrende,
risonano percosse ambe le sponde:
e par che muova a' suoi fratelli guerra
l'ondoso scotitor de l'ampia terra.

Si spezzano le nubi, e foco n'esce
che scorre i campi del celeste regno:
il foco e l'aria e l'acqua e 'l ciel si mesce;
non han più gli elementi ordine o segno.
S'odono orrendi tuoni, ognor più cresce
de' fieri venti il furibondo sdegno;
increspa e inlividisce il mar la faccia
e l'alza contra il ciel che lo minaccia.

Già s'ascondeva d'Ostia il lido basso,
e 'l Porto d'Anzio di lontan surgea;
quando sentì il romor, vide il fracasso,
che 'l ciel turbava e 'l mar, la bella Dea:
vide fuggirsi e frettoloso passo
le Ninfe dal furor de la marea;
onde tutta sdegnosa aperse il velo,
e dimostrò le sue bellezze al cielo. (***)

(*) Rapido schizzo del tratto di mare che fronteggia la Toscana, con la visione di tutte le isole prospicienti la terraferma: Capraia, Gorgona, Elba.
(**) il fiume Ombrone, che è in Toscana. Ma lentamente la prospettiva si sposta e limita la zona laziale della costa.
è a questo punto che incomincia la lotta tra i venti: Libeccio e Scirocco contro Zefiro ed Aquilone.
(***) La bellezza luminosa di Venere si apre sul mare disordinato dalla furia dei venti. E allora si placa l'inquietudine delle onde e un'immagine di splendore si distende a conclusione del canto.


Vedi anche: https://intervistemetal.blogspot.com/2021/01/le-poetesse-di-fine-cinquecento-e-del.html