Riassunto e commento dell'"Aminta" di Torquato Tasso

Nei primi mesi del 1573 il Tasso compone l'Aminta, che viene rappresentata dalla compagnia di comici dell'arte dei Gelosi il 31 luglio (ma la data non è certa) nei giardini della villeggiatura estiva degli Estensi, nell'isoletta di Belvedere sul Po, vicino a Ferrara.



Riassunto e versi del Prologo

Nel Prologo l'Amore annuncia di essere sfuggito alla madre, che lo vorrebbe dio di corte tra "corone e scettri" (1) e d'essersi mescolato ai pastori (2) per pungere col suo dardo una ninfa dal cuore di sasso, Silvia, (3) come già punse il pastorello Aminta (4)

1) "Chi crederia che sotto umane forme
e sotto queste pastorali spoglie
fosse nascosto un dio? non mica un dio
selvaggio (...) In questo aspetto, certo, e in questi panni,
non riconoscerà sì di leggiero
Venere madre me suo figlio Amore"

2) "E per far sì bell'opra a mio grand'agio,
io ne vo a mescolarmi infra la turba
de' pastori festanti e coronati,
che già qui s'è inviata (...) esser fingendo
uno di loro schiera"

3) "Io voglio oggi con questo
far cupa e immedicabile ferita
nel duro sen de la più cruda ninfa
che mai seguisse il coro di Diana."

4) "Né la piaga di Silvia fia minore
(ché questo è 'l nome de l'alpestre ninfa)
che fosse quella che pur feci io stesso
nel molle sen d'Aminta"

Riassunto e versi dell'Atto Primo

La favola inizia col dialogo (duetto) tra l'esperta Dafne (1) e la giovinetta Silvia, scontrosa nella sua verginale ritrosia, (2) che odia chi l'ama sol perché l'ama (3) e respinge gli inviti della compagna a godere la vita;  continua col dialogo-duetto tra l'esperto Tirsi (4) e il giovane amatore, il pastorello Aminta, tenero e disperato. (5) Si spande infine nel racconto di Aminta, di come accanto a Silvia bambina già conobbe l'amore (6) e di come tramutò i primi giochi nelle tempeste della passione e nella sua determinazione di morire. (7) A chiudere il primo atto, il Coro canta l'età dell'oro, il beato tempo dell'amore senza freni d'onore e di pudore, felice della legge di Natura: s'ei piace, ei lice. (8)

1) "Vorrai dunque pur, Silvia,
da i piaceri di Venere lontana
menarne tu questa tua giovanezza?
Né 'l dolce nome di madre udirai,
né intorno ti vedrai vezzosamente
scherzar i figli pargoletti? Ah, cangia,
cangia, prego, consiglio,
pazzarella che sei."

2) "Quando io dirò, pentita, sospirando,
queste parole che tu fingi ed orni
come a te piace, torneranno i fiumi
a le lor fonti, e i lupi fuggiranno
da gli agni, e 'l veltro le timide lepri;
amerà l'orso il mare, e 'l delfin l'alpi."

3) "Faccia Aminta di sé e de' suoi amori
quel ch'a lui piace: a me nulla ne cale; [non me ne importa nulla]
e pur che non sia mio, sia di chi vuole;
ma esser non può mio s'io lui non voglio;
né, s'anco egli mio fosse, io sarei sua.

Dafne: "Onde nasce il tuo odio?"

Silvia: "Dal suo amore" [...] Odio il suo amore
ch'odia la mia onestate, ed amai lui
mentr'ei volse di me quel ch'io voleva." [finché egli nutrì per me solamente i medesimi sentimenti di fraterna cordialità che io provavo per lui]

4) "Ahi, Aminta, ahi, Aminta,
che parli? o che vaneggi? Or ti conforta,
ch'un'altra troverai, se ti disprezza
questa crudele"

5) "[...] Non ho visto mai,
né spero di vedere,
compassion ne la crudele e bella [...]
Se perduto ho me stesso, quale acquisto
farò mai che mi piaccia? [...]
Ch'io sono ormai sì prossimo a la morte [...]
e che l'incida ne la scorza d'un faggio, presso il luogo
dove sarà sepolto il corpo esangue:
sì che tal or passandovi quell'empia,
sì goda di calcar l'ossa infelici
co'l piè superbo, e tra sé dica: ''è questo
pur mio trionfo'': e goda di vedere
che nota sia la sua vittoria a tutti
li pastor [...]"

6) "Essendo io fanciulletto [...]
intrinseco divenni
de la più vaga e cara verginella
che mai spiegasse a vento chioma d'oro [...]
un incognito affetto,
che mi fea desiare
d'esser sempre presente
a la mia bella Silvia"

7) "Silvia", le dissi, "io per te ardo, e certo
morrò se non m'aiti. A quel parlare
chinò ella il bel volto [...] indi si tolse, e più non volle
né vedermi né udirmi [...] ed ogni cosa
tentata ho per placarla, fuor che morte.
Mi resta sol che per placarla io mora."

8) "O bella età de l'oro [...] legge aurea e felice
che natura scolpì: "S'ei piace, ei lice".
Allor tra fiori e linfe
traen dolci carole
gli Amoretti senz'archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
vezzi e susurri, ed a i susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
scopria sue fresche rose,
ch'or tien nel velo ascose,
e le poma del seno acerbe e crude;
e spesso in fonte o in lago
scherzar si vide con l'amata il vago [...]
Amiam, ché 'l sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce."

Riassunto e versi dell'Atto Secondo

L'atto secondo vede di scena il satiro che rivela il suo amore per Silvia (1) e l'intenzione di assalirla alla fonte, (2) dove essa è solita rinfrescarsi dopo la caccia. Ed ecco Dafne e Tirsi, desiderosi di aiutare Silvia e Aminta, combinare l'incontro tra la ninfa e il pastore presso la fonte (3). Quindi, passando a parlare dei casi loro, Tirsi canta i grandi avi della sua illustre casata, (4) mentre Dafne si allontana per tentare la scontrosa Silvia (5) e Tirsi accoglie Aminta, al quale annuncia che Silvia lo attende presso la fonte, per di più "ignuda e sola" (6) e con Dafne. Starà ad Aminta mostrarsi finalmente ardito e cogliere l'occasione. L'atto è chiuso dal Coro che esalta Amore, maestro di se stesso (7)

1) "Ohimè, che tutte piaga e tutte sangue
sono le viscere mie; e mille spiedi
ha negli occhi di Silvia il crudo Amore.
Crudel Amor, Silvia crudele ed empia
più che le selve! Oh come a te confassi [si addice]
tal nome, e quanto vide chi te 'l pose!
Celan le selve angui, leoni ed orsi
dentro il lor verde; e tu dentro al bel petto
nascondi odio, disdegno ed impietate [...]"

2) "Ohimè, quanto ti porto i fior novelli,
tu li ricusi [...] me medesmo ti dono. Or perché iniqua
scherni ed abborri il dono? non sono io
da disprezzar [...]
Io perché non per mia salute adopro
la violenza, se mi fé natura
atto a far violenza ed a rapire?
Sforzerò, rapirò quel che costei
mi niega, ingrata, in merto de l'amore
[...] ella ha per uso
d'andar sovente a rinfrescarsi a un fonte
[...] Ivi io disegno
tra i cespugli appiattirmi e tra gli arbusti,
ed aspettar fin che vi venga; e, come
veggia l'occasion, correrle adosso.
Qual contrasto col corso o con le braccia
potrà fare una tenera fanciulla
contra me sì veloce e sì possente?
[...] indi non partirà, ch'io pria non tinga
l'armi mie (*) per vendetta nel suo sangue."

(*) Il termine "armi mie" può essere inteso in due sensi: quello sessuale, del pene che, usato a mo' di spada, si introduce in Silvia, sverginandola e facendola sanguinare ("nel suo sangue"), o può intendersi in generale con la maggior forza fisica del satiro, forza che viene usata per aggredire Silvia, a mo' di arma. Tale monologo è stato messo in musica nel 1594.

3) "Tirsi, com'io t'ho detto, io m'era accorta
ch'Aminta amava Silvia [...] ridendo e piangendo uccida altrui [col suo riso o pianto fa soffrire, senza rendersene conto, l'innamorato Aminta]
[...] Silvia è ritrosa fuor di modo. [...]
Or su, dirotti:
debbiamo in breve andare Silvia ed io
al fonte che s'appella di Diana,
là dove a le dolci acque fa dolce ombra
quel platano ch'invita al fresco seggio
le ninfe cacciatrici. Ivi so certo
che tufferà le belle membra ignude."

4) "O Dafne (...) Eglio [Dio] mi disse, allor che suo mi fece:
"Tirsi, altri scacci i lupi e i ladri, e guardi
i miei murati ovili; altri comparta
le pene e i premii a' miei ministri; ed altri
pasca e curi le greggi: altri conservi
le lane e 'l latte, ed altri le dispensi:
tu canta, or che se' 'n ozio." Ond'è ben giusto
che non gli scherzi di terreno amore,
ma canti gli avi del mio vivo e vero
non so s'io lui mi chiami Apollo o Giove,
ché ne l'opre e nel volto ambi somiglia;
gli avi più degni di Saturno o Celo:
agreste Musa a regal merto; e pure,
chiara o roca che suoni, ei non la sprezza [...]"

5) "Il punto è questo:
che tu andando al fonte con colei,
cerchi d'intenerirla;"

6) "Nove, Aminta, t'annuncio di conforto:
lascia omai questo tanto lamentarti [...]
Silvia t'attende a un fonte, ignuda e sola,
ardirai tu d'andarvi?"

7) "Amore, in quale scola,
da qual maestro s'apprende
la tua sì lunga e dubbia arte d'amare? [...]
Amor, degno maestro
sol tu sei di te stesso,
e sol tu sei da te medesmo espresso [...]"

Riassunto e versi dell'Atto Terzo

L'atto terzo si apre con Tirsi che annuncia preoccupato al Coro i suoi timori per Aminta (1) : narra che il pastore, giunto alla fonte, ha trovato Silvia legata ignuda a un albero da un satiro malintenzionato (2); ha messo in fuga il satiro, ha cominciato a sciogliere la ninfa (3). Ma questa, dispettosa, dopo avergli ingiunto di guardarsi bene dal toccarla (4), come ha avuto libere le mani, si è liberata dai lacci ai piedi e senza neppure salutarlo se ne è fuggita come una cerva (5). Inutilmente Tirsi l'ha seguita. Tornato alla fonte, non ha più trovato Aminta: ora teme che l'amico sia andato ad uccidersi (6). Così si allontana per cercarlo nell'antro del saggio Elpino (7). Sopraggiungono Aminta e Dafne, che cerca di convincerlo a desistere dal suo disperato proposito (8). Ma subito la ninfa Nerina interrompe il loro colloquio: annuncia che Silvia è morta. Nerina racconta che la fanciulla è giunta da lei correndo, che lei ha rivestito perché ignuda e che insieme sono andate a caccia. (9) Così hanno incontrato un lupo: Silvia l'ha ferito e inseguito nella selva; (10) Nerina, postasi troppo tardi sulle tracce della compagna, ha trovato le armi di Silvia e sette lupi intenti  a leccare in terra sangue e ossa, con accanto il velo che essa stessa aveva donato all'amica (11). Segue la disperazione di Aminta (12) che chiede alla ninfa il velo e corre a morire. (13)
Un breve coro, con l'invito a pensare all'amore piuttosto che alla morte, (14) chiude l'atto.

1) "[...] Ahi, miserello,
forse ha se stesso ucciso: ei non appare.
Io l'ho cerco e ricerco ormai tre ore
nel loco ov'io il lasciai e ne i contorni;
né trovo lui né orme de' suoi passi.
Ahi, che s'è certo ucciso! Io vo' novella
chiederne a que' pastor che colà veggio.
Amici, avete visto Aminta, o inteso
novella di lui, forse?"

2) "[...] e quasi a un tempo
Dafne veggiam, che battea palma a palma;
la qual, come ci vide, alzò la voce:
"Ah, correte", gridò, "Silvia è sforzata".
[...] Ecco miriamo a un'arbore legata
la giovinetta ignuda come nacque,
ed a legarla fune era il suo crine:
il suo crine medesmo in mille nodii
a la pianta era avvolto"

3) "[...] Aminta con un dardo che tenea
ne la man destra, al Satiro avventossi
come un leone, ed io fra tanto pieno
m'avea di sassi il grembo: onde fuggissi [...]
Tutto modesto, e disse: "O bella Silvia,
perdona a queste man, se troppo ardire
è l'appressarsi a le tue dolci membra,
perché necessità dura la sforza:
necessità di scioglier questi nodi;""

4) "[...] Nulla rispose,
ma disdegnosa e vergognosa a terra
chinava il viso, e 'l delicato seno
quanto potea torcendosi celava [...]
Quinci con le sue man le man le sciolse
in modo tal, che parea che temesse
pur di toccarle, e desiasse insieme;
si chinò poi per islegarle i piedi;
ma come Silvia in libertà le mani
si vide, disse in atto dispettoso:
"Pastor, non mi toccar: son di Diana;
per me stessa saprò sciogliermi i piedi."

5) "[...] Dopo molta fatica ella si sciolse;
e, sciolta a pena, senza dire "A Dio",
a fuggir cominciò com'una cerva;
e pur nulla cagione avea di tema,
ché l'era noto il rispetto d'Aminta."

6) "[....] e poi tornando dove
lasciai Aminta al fonte, no'l trovai;
ma presago è il mio cor di qualche male.
So ch'egli era disposto di morire,
prima che ciò avvenisse."

7) "Io voglio irmene a l'antro
del saggio Elpino: ivi, s'è vivo, forse
sarà ridotto, ove sovente suole
raddolcir gli amarissimi martiri
al dolce suon de la sampogna chiara,
ch'ad udir trae da gli alti monti i sassi,
e correr fa di puro latte i fiumi,
e stillar mele da le dure scorze."

8) "Non disperar, Aminta,
ché, s'io lei ben conosco,
sola vergogna fu, non crudeltate,
quella che mosse Silvia a fuggir via."

9) "Dunque a me pur conviene esser sinistra
còrnice (A) d'amarissima novella!
Oh per mai sempre misero Montano,
qual animo fia 'l tuo quando udirai
de l'unica tua Silvia il duro caso?
Padre vecchio, orbo padre: ah, non più padre!"
[...] Venne Silvia al mio albergo ignuda; e quale
fosse l'occasion, saper la dei:
poi rivestita mi pregò che seco
ir volessi a la caccia che ordinata
era nel bosco c'ha nome da l'elci.
Io la compiacqui: andammo."

(A) La "sinistra còrnice" è la cornacchia: già in epoca romana era ritenuta uccello di malaugurio.

10) "[...] ecco, di non so d'onde, un lupo sbuca,
grande fuor di misura, e da le labra
gocciolava una bava sanguinosa.
Silvia [...] tira, e 'l coglie
a sommo 'l capo: ei si rinselva, ed ella,
vibrando un dardo, dentro 'l bosco il segue."

11) "Io con un altro dardo
seguo la traccia, ma lontana assai:
ché più tarda mi mossi. Come furo
dentro a la selva, più non la rividi;
ma pur per l'orme lor tanto m'avvolsi,
che giunsi nel più folto e più deserto.
Quivi il dardo di Silvia in terra scorsi,
né molto indi lontano un bianco velo
ch'io stessa le ravvolsi al crine;  e, mentre
mi guardo intorno, vidi sette lupi
che leccavan di terra alquanto sangue
sparto intorno a cert'ossa affatto nude
[...]e questo è quanto
posso dirvi di Silvia; ed ecco 'l velo."

12) "Poco parti aver detto? Oh velo, oh sangue,
oh Silvia, tu se' morta!"

13) "Or che fatt'ha l'estremo
de la sua crudeltate,
ben soffrirà ch'io moia,
e tu soffrir lo dei."
[...] "Ninfa, dammi, ti prego,
quel velo ch'è di lei
solo e misero avanzo,
sì ch'egli mi accompagne
per questo breve spazio
e di via e di vita che mi resta,
e con la sua presenza
accresca quel martire,
ch'è ben picciol martire
s'ho bisogno d'aiuto al mio morire.
[...] e voi  restate ancora,
ch'io vo per non tornare."

14) "Non bisogna la morte,
ch'a stringer nobil core
prima basta la fede, e poi l'amore. (B)
Né quella che si cerca
è sì difficil fama
seguendo chi ben ama,
ch'amore è merce, e con amar si merca. (C)
E cercando l'amor si trova spesso
glora immortal appresso." (D)

(B) Non è necessario che per amore  ci si uccida, poiché la fedeltà e l'amore bastano a tenere uniti gli animi eletti.
(C) e seguendo, imitando chi ben ama, non è difficile conseguire quella fama che si cerca, poiché l'amore è una merce che si compera solo coll'amore (riferimento a Dante: "Amor, ch'a nulla amato amar perdona")
(D) e spesso, cercando l'amore, si può raggiungere una gloria immortale.


Riassunto e versi dell'Atto Quarto

L'atto quarto si apre coi rallegramenti di Dafne e Silvia rediviva: (1)
la ninfa, infatti, è sfuggita ai lupi che stavano divorando una loro preda e al lupo che l'aveva ferita; non ha perduto che il velo impigliatosi in un albero durante la fuga. (2)
Ma se ella è salva, certamente non lo è Aminta; (3) e Dafne ne racconta la disperazione e il proposito di suicidio. (4) Finalmente, Silvia comincia a intenerirsi (5) anche se assicura che le sue lacrime non sono d'amore, ma di pietà (6), e naturalmente riceve i rimproveri di Dafne. (7) Intanto sopraggiunge il pastore Nuncio a riferire le ultime parole dell'innamorato infelice e il suo folle salto da un dirupo. (8) Il pentimento di Silvia (9) e il coro chiudono l'atto. (10)

1) "Ne porti il vento, con la ria novella
che s'era di te sparta, ogni tuo male
e presente e futuro. Tu sei viva
e sana, Dio lodato; ed io per morta
pur ora ti tenea: in tal maniera
m'avea Nerina il tuo caso dipinto.
Ahi, fosse stata muta ed altri sordo!"

2) "Io, seguitando un lupo,
mi rinselvai nel più profondo bosco,
tanto ch'io ne perdei la traccia [...]
il vidi con molt'altri intorno a un corpo
d'un animal ch'avea di fresco ucciso [...]
ed io, che 'l vidi sì vicin che stimai vano
l'uso de l'arco, non avendo altr'armi,
a la fuga ricorsi. Io fuggo, ed egli
non resta di seguitarmi. Or odi caso:
un vel, ch'avea involto intorno al crine,
si spiegò in parte, e giva ventilando,
sì ch'ad un ramo avviluppossi [...]
M'impennò la paura a i piè fugaci,
ch'ei non mi giunse, e salva uscii del bosco."

3) "Ohimè, tu vivi, altri non già [...]
Mi piace di tua vita, ma mi duole
de l'altrui morte [...]
De la morte d'Aminta."

4) "La dura novella
de la tua morte, ch'egli udì e credette,
avrà porto al meschino il laccio o 'l ferro,
od altra cosa tal che l'avrà ucciso [...]
Il vidi poscia, allora
ch'intese l'amarissima novella
de la tua morte, tramortir d'affanno,
e poi partirsi furioso in fretta
per uccider se stesso; e s'avrà ucciso
veracemente."

5) "Ohimè, tu no'l seguisti
per impedirlo? Ohimè, cerchiamo, andiamo,
che, poi ch'egli moria per la mia morte,
de' per la vita mia restar in vita."

6)  "Pianto d'amor non già, ma di pietate."

7) "O tardi saggia, e tardi
pietosa, quando ciò nulla rileva!"

8) "Porto l'aspra novella
de la morte di Aminta [...]
Il più nobil pastor di queste selve,
che fu così gentil, così leggiadro,
così caro a le ninfe ed a le Muse,
ed è morto fanciullo, ahi, di che morte!
[...] ch'io sentii quel meschino in su la morte
finir la vita sua
co'l chiamar il tuo nome [di Silvia].
[...] Io era a mezzo 'l colle, ove avea tese
certe mie reti, quando assai vicino
vidi passar Aminta, in volto e in atti
troppo mutato da quel ch'ei soleva,
troppo turbato e scuro [...]
Indi si mosse, e mi condusse
ov'è scosceso il colle,
e giù per balzi e per dirupi incolti
strada non già, ché non v'è strada alcuna,
ma cala un precipizio in una valle.
Qui ci fermammo. Io, rimirando a basso,
tutto sentii raccapricciarmi, e 'ndietro
tosto mi trassi; [...] indi parlommi sì:
"Fa che tu conti a le ninfe e a i pastor ciò che vedrai.
[...] Vorrei che queste mie membra meschine
sì fosser lacerate [...]
Silvia, io ti seguo, io vengo
a farti compagnia,
se non lo sdegnerai;
e morirei contento,
s'io fossi certo almeno
che 'l mio venirti dietro
turbar non ti dovesse,
e che fosse finita
l'ira tua con la vita.
Silvia, io ti seguo, io vengo". Così detto,
precipitossi d'alto
co l capo in giuso; ed io restai di ghiaccio.'

9) "Ohimè, ben son di sasso,
poi che questa novella non m'uccide.
Ahi, se la falsa morte
di chi tanto l'odiava
a lui tolse la vita,
ben sarebbe ragione
che la verace morte
di chi tanto m'amava
togliesse a me la vita;
e vo' che la mi tolga,
se non potrà co 'l duol, almen co 'l ferro,
o pur con questa fascia,
che non senza cagione
non seguì le ruine
del suo dolce signore,
ma restò sol per fare in me vendetta
de l'empio mio rigore
e del suo amaro fine. [...]
ché so certo ch'ei m'ama,
come mostrò morendo. "

10) "Consolati, meschina,
che questo è di fortuna e non tua colpa."

Riassunto e versi dell'Atto Quinto


Nel quinto atto, Elpino annuncia al Coro che Aminta è salvo: (1) gettatosi dal dirupo è caduto su di un cespuglio e benché intontito, vive.(2) Accanto a lui già sono Dafne e Silvia e già Silvia ha congiunto "viso a viso e bocca a bocca" e con le sue lacrime l'ha fatto rinvenire. (3) Insomma i due amanti, che noi non abbiamo mai visto insieme sulla scena, si sono uniti. (4) L'atto si chiude col Coro che si augura amori meno tormentati. (5)

1) "Ecco, precipitando, Aminta ascende
al colmo, al sommo d'ogni contentezza. [...]
Quel che qui viene è il saggio Elpino, e parla
così d'Aminta come vivo ei fosse,
chiamandolo felice e fortunato [...]"

2) "Amici, state allegri,
ché falso è quel romor che a voi pervenne
de la sua morte [...]
Anzi è pur vero [che Aminta precipitò dal precipizio]
ma fu felice il precipizio; e sotto
una dolente imagine di morte
gli recl vita e gioia. Egli or si giace
nel seno accolto de l'amata ninfa,
quanto spietata già, tanto or pietosa;
e le rasciuga da' begli occhi il pianto
con la sua bocca."

3) " [...] Sopragiunsero insieme Dafne e Silvia,
che, come intesi poi, givan cercando
quel corpo che credean di vita privo.
Ma come Silvia il riconobbe e vide
le belle guancie tenere d'Aminta
iscolorite in sì leggiadri modi
che viola non è che impallidisca
sì dolcemente [...] lasciò cadersi in su 'l giacente corpo;
e giunse viso a viso e bocca a bocca [...]
Inaffiar cominciò co 'l pianto suo
il colui freddo viso, e fu quell'acqua
di cotanta virtù, ch'egli rivenne [...]"

4) "Or chi potrebbe dir come in quel punto
rimanessero entrambi, fatto certo
ciascun de l'altrui vita, e fatto certo
Aminta de l'amor della sua ninfa,
e vistosi con lei congiunto e stretto?"

5) " [...] E siano i condimenti
de le nostre dolcezze
non sì gravi tormenti,
ma soavi disdegni
e soavi ripulse,
risse e guerre a cui segua,
reintegrando i cori, o pace o tregua."


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